Riflettendo sul concetto di grandezza dell’uomo secondo Nietzsche, possiamo considerare il dispositivo artistico come un ponte, piuttosto che un fine ultimo. Questa prospettiva diventa particolarmente rilevante in un mondo che sta sempre più perdendo sostanza, sacralità e verità.
Reinterpretando concetti come transizione e tramonto, e facendo ancora una volta riferimento a Nietzsche, i pigmenti agiscono all’interno dei miei dispositivi artistici come tracce di percorso, indicatori di movimento e suggeritori di passaggio. Non cerco la perfezione estetica, ma sono spinto dall’impulso di distruggere ogni forma e contenuto visibile che possa rappresentare una cultura merceologica. La tensione che applico ai miei mezzi espressivi si manifesta attraverso una patina temporale, inducendo un rapido processo alchemico di decadenza e rovina, come descritto dal sociologo Georg Simmel.
Come artista, agendo come materia prima nell’invenzione della mia mescolanza di pratiche creative, sono chiamato a sviluppare la capacità di vedere ciò che rimane dell’esperienza concreta del presente, al di là delle mode dell’arte, dei consumi e della comunicazione contemporanea, destinati a essere costantemente consumati in un inesauribile inseguimento effimero. È necessario avere il coraggio di affermare che il cuore dell’arte risiede altrove.
Il mio dispositivo artistico, partendo dalla grammatica, non è stato creato per essere semplicemente osservato, o almeno non è questa la sua funzione principale. Richiamando una riflessione del filosofo Bruno Latour sulle strutture ibride, una volta consumato il valore stabile della forma, diventa un passaggio trasparente e, di conseguenza, non funziona più come un modello in sé, ma come un dispositivo comunicante che cerca di ristabilire una complessa simmetria tra l’artista e l’altro, tra la cultura e la natura. La sua esistenza è un tessuto cosmico, una trama priva di una forma organica specifica, che fa parte dell’ecosistema dinamico di cui facciamo parte con la nostra umanità.
Attraverso il concetto di rovina come meccanismo creativo, nei miei dispositivi si manifestano due forze distintive, opposte, eterogenee e inseparabili: la pesantezza della materia e lo spirito della natura, che si incontrano all’interno della materia stessa, creando un’unità estetica-di-convergenza. Questa unità, mantenendo l’originaria inimicizia delle parti, è ora investita di un nuovo significato etico che genera diverse regioni di significato.
Nella simultaneità di intuizione e pensiero, che sposta dinamicamente i propri confini all’interno del dispositivo, il conflitto tra la spinta verso il basso (della materia) e la spinta verso l’alto (dello spirito), tra scopo e accidente, tra natura estetica e natura etica, tra passato e presente, tra ciò che non è più e ciò che non è ancora, non si risolve mai completamente. Si mantiene una coesistenza irrisolta, una tensione profonda tra le loro opposizioni, che si manifesta in un’unità densa e permeabile, che si oppone all’unità compatta e strutturata che nessuna forma può mai realizzare se non aprendosi a tutte le correnti antagoniste.
Il risultato attivo che deriva da questo dispositivo artistico, staccato dall’universo statico delle corrispondenze simboliche, è di diventare un vero medium all’interno di uno sfondo relazionale. Nonostante la mancanza di armonia, fa emergere i suoi legami profondi per il fruitore, coinvolgendolo in un’esperienza autentica e impenetrabile con il proprio corpo.
Riconoscendo l’interconnessione tra natura e cultura, in cui agiamo producendo rovine, è possibile pensare a questo dispositivo di convergenza che, all’interno di un’esposizione in continua evoluzione, non è più la sintesi di una costruzione formale, ma, seguendo una visione teilhardiana, piuttosto un tessuto, una trama del vissuto inconcluso. Questo processo alimenta una progressiva acquisizione della dissoluzione nell’artificio delle cose, come processo di riappropriazione e risignificazione del mondo.
Tutto ciò rappresenta il risultato del passaggio dalla ricerca avanguardistica incentrata su categorie astratte come spazio-tempo, e la successiva elaborazione in un nuovo stile di una soggettività in azione, che si riflette nelle cose.
Purtroppo, dobbiamo continuare a filosofare per creare arte contemporanea, tenendo a mente ciò che sostiene Pierre Lévy, filosofo francese che studia l’impatto di Internet sulla società. O viviamo appieno le emozioni, percependole come eventi del nostro flusso di esperienza, oppure pensiamo che esse rappresentino la realtà, e quindi abbiamo il compito di costruirle come una scena, realizzandole.
Quando le emozioni si materializzano, generando continuamente altre emozioni e pensieri, quando si trasformano in parole e ci spingono ad agire, ci rinchiudono ancora di più nella prigione reale che non smettiamo di produrre: l’illusione.