Vulnerare, Giulio Casini

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Tempo e spazio sono l’ambito in cui si svolge la vita; al tempo stesso, possibilità e limite.
Da sempre cerchiamo – o immaginiamo – un modo per evitare di restare costretti in questo spazio assegnato, in questo tempo limitato; ma poi desideriamo anche una gabbia in cui ripararci dal male del mondo, una protezione dal rischio di non esistere più.
Spesso questi recinti, questi limiti hanno forma quadrata; ci appare più semplice, più efficace, nel quadrato in qualche modo ci rassicuriamo. Forse per questo le opere d’arte hanno spesso assunto questa forma, recintando e definendo uno spazio all’interno del quale esprimere la condizione di chi come noi – già schiavi del tempo – cerca per questa via di usare lo spazio a suo vantaggio.
È ciò che pone in atto Sergio Mario Illuminato, che in quello spazio conquistato di VULNERARE attua una trasformazione alchemica usando il mondo materiale – pietre, colori, piante, oggetti e soprattutto, il fuoco – per giungere con l’”Opera al Rosso” all’obiettivo ideale dell’alchimia, il fine ultimo di chi perseguiva il superamento dei limiti della vita: l’eternità, l’immortalità. Quella cancellazione del tempo che il mito relaziona al dormire e – soprattutto – sognare sui sepolcri dei propri antenati, che consentirebbe per tale via di comunicare con loro. E questo ancor più durante il solstizio d’estate, quando il sole non disegna più ombre sul mondo; poiché il tempo proprio dalle ombre viene testimoniato e reso visibile, si verifica in tal modo la stasi del tempo, e l’annullamento della distanza tra chi è stato presente nel passato e chi lo è oggi.
Ciò è anche alla base della fascinazione che su di noi esercitano le rovine (molte opere di Sergio Mario Illuminato sono rovine del presente, desiderati ruderi attuali); la percezione di presenza, il poter toccare, entrare in contatto con qualcosa che ha visto un tempo distante dall’oggi ma esiste ancora, insieme a noi.
Il presente del passato che arriva a toccare il presente del presente, annullando così il tempo che si era frapposto tra i due, e dando così concretezza ad un desiderio fondamentale dell’essere umano.
Tempo e spazio sono l’ambito in cui si svolge la vita; al tempo stesso, possibilità e limite.
Da sempre cerchiamo – o immaginiamo – un modo per evitare di restare costretti in questo spazio assegnato, in questo tempo limitato; ma poi desideriamo anche una gabbia in cui ripararci dal male del mondo, una protezione dal rischio di non esistere più.
Spesso questi recinti, questi limiti hanno forma quadrata; ci appare più semplice, più efficace, nel quadrato in qualche modo ci rassicuriamo. Forse per questo le opere d’arte hanno spesso assunto questa forma, recintando e definendo uno spazio all’interno del quale esprimere la condizione di chi come noi – già schiavi del tempo – cerca per questa via di usare lo spazio a suo vantaggio.
È ciò che pone in atto Sergio Mario Illuminato, che in quello spazio conquistato di VULNERARE attua una trasformazione alchemica usando il mondo materiale – pietre, colori, piante, oggetti e soprattutto, il fuoco – per giungere con l’”Opera al Rosso” all’obiettivo ideale dell’alchimia, il fine ultimo di chi perseguiva il superamento dei limiti della vita: l’eternità, l’immortalità. Quella cancellazione del tempo che il mito relaziona al dormire e – soprattutto – sognare sui sepolcri dei propri antenati, che consentirebbe per tale via di comunicare con loro. E questo ancor più durante il solstizio d’estate, quando il sole non disegna più ombre sul mondo; poiché il tempo proprio dalle ombre viene testimoniato e reso visibile, si verifica in tal modo la stasi del tempo, e l’annullamento della distanza tra chi è stato presente nel passato e chi lo è oggi.
Ciò è anche alla base della fascinazione che su di noi esercitano le rovine (molte opere di Sergio Mario Illuminato sono rovine del presente, desiderati ruderi attuali); la percezione di presenza, il poter toccare, entrare in contatto con qualcosa che ha visto un tempo distante dall’oggi ma esiste ancora, insieme a noi.
Il presente del passato che arriva a toccare il presente del presente, annullando così il tempo che si era frapposto tra i due, e dando così concretezza ad un desiderio fondamentale dell’essere umano.
E poi di nuovo la scrittura, nascosta stavolta nei faldoni antichi, abbandonati, ormai inutili di processi passati, di condanne concluse con la fine del tempo in cui furono emesse; ma non sono pagine, sono vite di uomini che da quelle sentenze furono reclusi per anni, talvolta per sempre, in un quadro immobile di pietra costruito attorno a loro e alle loro anime.
Vediamo il dispositivo ‘Divieto di Fissione’ di Sergio Mario Illuminato, spaccata, rovinata, ferita, una rovina affascinante nel suo essere lì a testimoniare l’incertezza, l’incredibile ineluttabile imperfezione della vita. Ma poi subito l’immagine di un essere umano che disegna con gli arti i confini di uno spazio vivibile, cercando di dare un senso a un luogo che non ne ha. Forse è ciò che facciamo un po’ tutti, muovendoci nella nostra prigione non apparente, verso qualcosa che ci faccia sentire vivi davvero.
E in un altro dispositivo ‘Collisione’ ecco un terreno solcato, inciso le cui infinite fratture suggeriscono anche l’idea di un qualcosa di fertile, di potenzialmente creatore di vita; un po’ come accade coi solchi in un campo.
A seguire, migliaia di fogli che sono persone, fogli come rovine restate a testimoniare l’assenza di chi è vissuto recluso nel presente di un tempo passato.
Compaiono ancora altre scritte, graffi nomi persone – i nomi sono persone – sui muri, e nelle opere di Sergio Mario Illuminato.
Una di queste è intonaco e colori stesi su una gabbia che è allo stesso tempo sbarre chiusura e supporto, sostegno. E poi ancora carta bruciata distrutta dal fuoco trasformata dal fuoco, Fenice che cerca una resurrezione dalle proprie ceneri, come fosse necessario – per vivere davvero – distruggere prima col fuoco la realtà apparente. Come si dovesse necessariamente attraversare quel rosso, il calore distruttore degli alchimisti verso la trasformazione definitiva, il Vero.
Ancora un quadrato, ‘Le Quattro Stagioni del Presente’, l’ennesimo, stavolta si moltiplica in quattro campi quadrati e allo stesso tempo è una finestra. Perché un quadrato può essere sia un limite che un’apertura. E una croce; davanti alla quale (o forse nella quale) ballano corpi che divengono croci, aprendo le braccia. Corpi che saltano, cercando uno spazio, una vita possibili, insieme; sono due, si aiutano abbracciano guardano amano e in questo loro essere insieme il dolore fonde, e cade in basso. Una danza che è possibile uscita, salvezza da raggiungere insieme, superando i limiti dell’egoismo, dell’isolamento, verso il desiderio di una unione d’amore che può salvarci, che deve farlo.
Danzano davanti a un quadrato, in una stanza chiusa, tentando di dare forma e senso al tempo e allo spazio.
E chissà che quella coppia danzante, quell’”Uno più Uno” non riesca a dar vita a qualcosa di nuovo, di inedito, a un “Tre” che non c’era prima e di cui tanto sentiamo il bisogno nel nostro percorso di prigionieri; ci è necessario questo “Tre” che può nascere soltanto dal cercarlo davvero ma in due, e non da soli.
Creare il “Tre” può finalmente e veramente consentirci di uscire dalla gabbia del tempo e dello spazio. Un “Tre” che è il nostro vivere parlare cantare ballare suonare, ma insieme; che è il nostro correre amarci sorriderci guardarci abbracciarci anche avendo alle spalle una croce, ed è la nostra salvezza possibile. Una salvezza che è davvero tale perché non sfugge al tempo o allo spazio, ma li interpreta, li usa; ed è ciò che accade nell’opera di Sergio Mario Illuminato.
L’immagine finale del film è il cortile quadrato (il quadro) del carcere, spazio e limite per i tanti che – nel presente di un passato lontano – l’hanno abitato in quell’unica ora in cui potevano tentare di donare ancora alla propria esistenza lo spazio del cielo. Quello spazio infinito sopra di sé che è la sola – ma fondamentale – differenza tra un cortile e una stanza. Quel cielo capace di farci sentire (o illudere – ma fa davvero differenza?) che avremo altro spazio, altro tempo, che non tutto è destinato a svanire.
Un cielo davanti agli occhi, da trasferire nel cuore; da conservare per quando la vita ci sembrerà una prigione senza uscita, un tempo concluso.
Ed è sotto questo cielo conquistato alla vista che il nostro essere vulnerabili, le nostre ferite diventano una testimonianza di vita possibile, come recita la scritta che appare sul muro alla fine del film: “vulnerabile dunque vivo, arte è amare la realtà”.
Forse davvero amare la realtà è un’arte; e l’Arte l’unico modo, la sola nostra possibilità di guardare davvero negli occhi la realtà, e noi.

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